Base neurale
delle risposte diverse al Ritalin nella ADHD
LUDOVICA R. POGGI
NOTE E
NOTIZIE - Anno XXII – 29 marzo 2025.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a
notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la
sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Quando è stato introdotto il
metilfenidato (Ritalin) in Italia per il trattamento del disturbo da deficit
dell’attenzione con iperattività (ADHD), negli USA esisteva già un’esperienza e
una casistica terapeutica di oltre un decennio, ma neuropsichiatri infantili e
pediatri italiani avevano molte riserve e, di fatto, per molti anni ancora
questo stimolante che eleva i livelli di dopamina circolante non è stato
prescritto in età evolutiva; e anche i neurologi erano restii nel prescriverlo
agli adulti in riabilitazione per deficit dell’attenzione acquisito. La
principale ragione della prudenza in età pediatrica era data da possibili
effetti indesiderati non rilevabili, per l’azione sui sistemi neuronici
dopaminergici dell’encefalo in un endofenotipo cerebrale già alterato. La
prudenza dei neurologi nei deficit dell’attenzione degli adulti era dettata
dagli effetti generali, diretti e collaterali, dei farmaci dopaminergici. A
questi motivi di preoccupazione si aggiungeva un elemento, considerato spesso
decisivo dal singolo medico: gli studi di verifica clinica avevano rilevato che
l’effetto terapeutico non si aveva in tutti i casi, e le differenze di risposta
al farmaco da un caso all’altro erano notevoli.
Anche se oggi la frequenza
di prescrizione del metilfenidato in Italia non è molto diversa da quella degli
altri paesi, le ragioni di quella prudenza sussistono e hanno indotto la
ricerca a indagare e analizzare soprattutto i motivi delle differenze
individuali nella risposta. Peter Manza e colleghi hanno studiato la risposta
del cervello adulto di volontari sani a 60 mg di metilfenidato assunto per via
orale, impiegando i dati di 3 studi PET e 2 studi MRI per dedurre le dinamiche
di risposta, al fine di stabilire quali condizioni neurali misurabili siano
necessarie per garantire una risposta efficace al farmaco.
Un primo importante dato è
questo: contrariamente a quanto si credeva, la dimensione (magnitudo)
degli incrementi di dopamina in risposta al metilfenidato non consente di
prevedere la comparsa degli effetti benefici. È risultato invece decisivo in
questo senso il valore di base della ratio della disponibilità individuale dei
recettori della dopamina D1 rispetto ai recettori D2: la proporzione D1/D2
disponibili consentiva di prevedere i miglioramenti dovuti al metilfenidato di
parametri di funzione cerebrale e, specificamente, dell’attenzione.
Questo studio, che più
avanti esaminiamo in dettaglio, affronta solo il problema della selezione dei
pazienti cui eventualmente prescrivere il farmaco, ma costituisce già un passo
in avanti per una riflessione fondata su dati concreti, nella scelta di fare
ricorso a questo supporto farmacologico all’esercizio cognitivo e
all’apprendimento di uno stile comportamentale.
(Manza P.,
Neural basis for individual differences in the
attention-enhancing effects of methylphenidate. Proceedings of the National Academy of Sciences USA – Epub ahead
of print doi: 10.1073/pnas.2423785122, 2025).
La
provenienza degli autori è
la seguente: Laboratory of Neuroimaging, National
Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism, NIH, Bethesda, MD (USA); Department
of Psychiatry, Kahlert Institute for Addiction Medicine, University of Maryland
School of Medicine, Baltimore, MD (USA).
[Edited by Donald Pfaff, Rockefeller
University, New York, NY].
La base della notevole variazione
individuale nell’abilità attentiva e nella risposta al metilfenidato finora non
era ancora stata stabilita e, fino a prima della sperimentazione condotta da Peter Manza e colleghi, erano in campo le seguenti ipotesi esplicative:
la densità relativa dei sub-tipi dei recettori della dopamina, la dimensione
della risposta dei sistemi neuronici alla dopamina o una combinazione di
entrambe.
Il lavoro qui recensito,
grazie a un dettagliato studio molecolare mediante tomografia ad emissione di
positroni (PET), ha caratterizzato i sistemi neuronici cerebrali segnalanti
mediante dopamina in 37 soggetti adulti volontari indenni da disturbi
psichiatrici, neurologici o di altro genere. Mediante PET sono stati definiti
nel cervello dei volontari sia la disponibilità di legame dei recettori della
dopamina D1 e D2/3 nel corpo striato, sia gli incrementi della
catecolamina indotti dal metilfenidato. Con la metodica della risonanza
magnetica nucleare di tipo funzionale (RMNF o fMRI, da functional
magnetic resonance imaging) è stata misurata l’attività
cerebrale evocata dal compito attenzionale, ossia la base neurofunzionale
attiva correlata alle risposte di attenzione, in due sessioni separate (con
placebo o con 60 mg di metilfenidato orale, in singolo cieco controbilanciato)
nei 37 soggetti volontari.
Una rete di aree corticali frontoparietali laterali e visive risultava sensibile alla
crescita del carico attenzionale e di working memory (WM), e presentava
un’attività neurale positivamente correlata con la prestazione in tutti i
soggetti. Le variazioni funzionali indotte in questa rete di aree corticali dal
metilfenidato correlavano perfettamente con cambiamenti di prestazione indotti
dal farmaco. La ratio dei recettori D1/D2-D3 nel caudato
dorso-mediale correlava positivamente con l’attività di base della rete
dell’attenzione e negativamente con i cambiamenti di attività indotti dal
metilfenidato.
Gli effetti di potenziamento
attentivo del farmaco non erano mai legati alle dimensioni dell’aumento della
dopamina striatale, ma mostravano piuttosto dipendenza dalla densità
recettoriale individuale di base. I volontari del campione con la più bassa
ratio D1/D2-D3 tendevano ad avere una più bassa attività
fronto-parietale durante le prove di attenzione sostenuta e
sperimentavano un miglioramento maggiore nelle prestazioni ai compiti
sperimentali e nelle funzioni cerebrali con il metilfenidato.
L’autrice della nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle
recensioni di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare
il motore interno nella pagina “CERCA”).
Ludovica R. Poggi
BM&L-29 marzo 2025
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